corso di boxe

tutti i martedi dalle 20 alle 22 e tutti i mercoledi dalle 18 alle 20 presso la palestra dell'XM24 via fioravanti 24 Bologna (zona piazza dell'Unità)

lunedì 28 dicembre 2009

giovedì 12 novembre 2009

E' uscito il quaderno di ProletariaBoxeBologna

E' uscito il primo quaderno di ProletariaBoxeBologna

Il messicano
di Jack London

di seguito la nostra presentazione al testo

PRESENTAZIONE

Questo breve racconto di Jack London (1), è del 1911, un periodo in cui gli incontri di boxe assomigliavano più a veri e propri massacri che a eventi sportivi. Siamo all’inizio dello scorso secolo, epoca attraversata da grandi movimenti sociali, dalla rivoluzione russa del 1905 con l’apparizione della forma sovietista, il potere diretto dei lavoratori, e dall’impetuoso crescere del movimento socialista e operaio in tutto il mondo. Il Messico era attraversato da numerosi fermenti rivoluzionari, capeggiati da vari dirigenti rivoluzionari: Villa, Zapata, ecc, dove le masse contadine iniziavano ad essere agenti diretti del cambiamento sociale. Questo racconto è un affresco di questo periodo dove si mischiano le dinamiche sportive della boxe, con la rabbia e il sangue delle masse popolari che si sollevavano.

La boxe è un insieme di violenza e logica, dove più si fondono questi elementi e maggiore è la resa dell’atleta. Il movimento del pugile è contraddistinto da passi di danza e pugni. Nel pugilato ci sono solo tre colpi: diretto, gancio, e montante, il resto è movimento del corpo, roteare del busto e gioco di gambe. Il pugilato spesso viene associato alla potenza e alla forza, ma ben più importante è la volontà, una corazza invisibile che un pugile si cala prima di salire sul ring, che gli permettere di non soccombere. I pugni fanno male, ma si è sconfitti sempre prima a livello mentale, perdendo fiducia nelle proprie capacità, e passivamente facendosi travolgere dalle onde avversarie. Sport dove la fatica e il dolore diventano compagni di viaggio, in ogni incontro anche il più facile, si deve accettare di essere colpiti. Le schivate, le finte, da sole non bastano a proteggersi dai colpi dell’avversario.
Non è possibile parlare della boxe, senza soffermaci su quel mondo parallelo che è il ring e la palestra, con i suoi riti, i suoi codici. Uno sport fatto di sacchi dove tirare i pugni, ma anche di specchi dove si riflettono i movimenti e si corregge la postura, come in una sala da ballo. Vi è poi la vestizione, rito nel rito, con le fasce alle mani, la conchiglia, i guantoni. L’atleta si presenta in “mutandoni” durante l’evento sportivo, elemento che accentua la percezione di violenza di questo sport, visto che l’atleta si presenta “nudo” a combattere. Vi sono poi nell’incontro molteplici situazioni, il pugno risolutore, la lenta demolizione, la testata “infame” o quella involontaria, il ko, il perdere ai punti, e le infinite polemiche sulle valutazioni arbitrarie, ma questo ci porterebbe troppo lontano, visto che lo scritto di London va ben al di là del mero racconto sportivo.

E’ uno scritto anomalo di London, dove lo scrittore cerca di far avvertire tutto lo spessore classista e “antimperialista” del pugille messicano, l’odio per questo sport inventato dai bianchi, e più in generale dalla società corrotta dei Gringos... Si mette in luce la differenza tra il gioco e la vita, tra l’essere e l’apparire: tra le necessità vive della rivoluzione messicana, il suo essere impetuosa ma estremamente povera, e la spensieratezza e l’opulenza statunitense, già allora un immenso contenitore di finti sogni e personaggi da rotocalco.
London scelse la boxe, oltre che per essere stato anch’esso un pugile, perché è per molti versi uno dei migliori contenitori di vizi della società. C’è il lato voyeristico di passività del pubblico, abbagliato da due corpi semi nudi che si macchiano di sangue, c’è poi il contesto commerciale legato alla boxe, che è il vero motore della storia che presentiamo, parabola amara di come ci osserva e ci combatte il “terzo mondo”.
Qualcuno potrà trovare romantici alcuni passaggi del racconto, che però vanno letti in un’ottica realista, cogliendo quel cieco odio che muove la rivolta dei dannati della terra. L’odio del giovane messicano, il suo dover combattere alle regole o meglio alle “non regole” dei gringos, è l’altra faccia del racconto, che estremizza con licenza poetica due tipologie umane: i due pugili che si combattono, che diventano le due nazioni, Messico e Usa, e più semplicemente alla fine le due classi che si fronteggiano, lavoratori contro padroni.

Viviamo un epoca dove lo sport è praticato più a livello di tifo che nell’esercizio di una determinata attività. Ci si anima per il cosiddetto tifo, ma non ci si accorge che si è sempre più relegati a spettatori, paganti passivi, mentre l’azione, la decisione viene relegata ad altri. Siamo arrivati alla forma più parossistica relegando lo stesso tifo, attività passiva ma ritenuta troppo esuberante, alla segregazione casalinga, dove comodamente in poltrona, chiusi nei nostri loculi possiamo sognare guardando alla tv a pagamento gli atleti.
Lo sport, forte veicolo di massa di energia e passione, è stato scarsamente attraversato da esperienze di sinistra in Italia. Ci sono pochissime associazione sportive e palestre fondate sui valori socialisti, quando esistono sono relegate a nicchia o appendice di strutture, quasi ad essere accessori, per far bella figura.
Centinaia di giovani, cosi come di compagni, seguono lo sport, ma ben pochi hanno la capacità di trasformare questo ampio interesse in un’arma culturale e politica. Ogni sport, sai individuale che di squadra, ha degli elementi legati al predominio (inteso come violenze e sopraffazione), tuttavia vi è in ogni attività sportiva un livello di lavoro collettivo, sacrificio, disciplina, capacità di valutare i propri limiti, che rispondo ai più naturali principi di un comportamento legato al pensiero socialista e alla lotta operaia organizzata.
In nazioni come Cuba, dove lo sport è praticato a livello di massa, non esiste il professionismo, in quel contesto lo sport diventa autenticamente disciplina popolare, che serve inoltre a prevenire anche determinate malattie.
La sinistra, le organizzazioni comuniste, le associazioni, i collettivi, dovrebbero avere la forza di sviluppare un proprio movimento sportivo, slegato dalle logiche professionistiche, protetto dalla piovra del profitto e libero di sperimentare un diverso modello di socialità. Si organizzano numerose feste, campeggi, nei circuiti di sinistra o eventi culturali come concerti musicali e spettacoli teatrali, ma ben poco si fa rispetto alle manifestazioni sportive. Ritornare ad esercitare una egemonia culturale nella società vuol dire anche avere la forza di intervenire in aspetti definiti secondari come spesso erroneamente è considerata l’attività fisica (2).
Questo sicuramente non risolverebbe i problemi di una società ingiusta e malata come la nostra, ma sarebbe un ottimo veicolo di aggregazione e di identificazione, magari riuscendo addirittura a strappare alcuni giovani delle nostre periferie all’abbandono, all’oblio, alla droga e all’alcol, questo senza dover inchinarsi ai valori borghesi, ma avendo la forza di offrire un altro modo di praticare lo sport e più in generale di sperimentare la forza di una collettività.
Inoltre una sana attività sportiva, e di combattimento, è un piccolo ma crediamo importante contributo all’autodifesa militante, che in questo periodo contraddistinto dall’emergere di nuove destre, Lega e neo-fascisti, assume un carattere importante.
Dare vita a esperienze di sport popolare vuol dire prima di tutto praticarlo e creare le condizioni perché diventi una possibilità per tutti/e.

Bologna 2009
Proletaria Boxe Bologna

1) Jack London, pseudonimo di John Griffith Chaney London (San Francisco, 12 gennaio 1876 – 22 novembre 1916), è stato uno scrittore statunitense, noto per romanzi quali Zanna bianca e Il richiamo della foresta.

2) Mao Tse Tung, Uno studio sull’educazione fisica, Sansoni, 1971, Firenze

giovedì 8 ottobre 2009

no alla guerra imperialista!


perchè esistono problemi più grandi dello sport:

martedì 1 settembre 2009

inizia il corso

inizia il corso di boxe popolare

martedi 15 settembre ore 20.00 Bologna 2009

martedì 4 agosto 2009

corso boxe


IL CORSO DI BOXE RIPRENDE A SETTEMBRE!

venerdì 10 aprile 2009

mercoledì 25 marzo 2009

uno studio sull'educazione fisica

GLI ERRORI FINO A OGGI COMMESSI NEL CAMPO
DELL’EDUCAZIONE FISICA E COME PORVI RIMEDIO
Uno studio sull’educazione fisica
Mao Tse-tung - OPERE
È importante combinare i tre tipi di educazione; eppure sino a oggi gli studenti sono impegnati esclusivamente nell’educazione intellettuale e morale, a tutto scapito dell’educazione fisica. Conseguenza nefasta è che essi curvano la schiena, piegano la testa, “hanno mani bianche e affusolate”, scalano una montagna e si mozza loro il fiato, guadano un fiume e hanno crampi alle gambe. Per questo Yan Tzu ebbe vita breve e Chia Yi morì prematuramente. Quanto a Wang Po e Liu Chao-lin, uno è morto giovane e l’altro finì paralitico7. Tutti furono uomini di grande virtù e dalle molte conoscenze: ma se il corpo perisce, spariscono anche le virtù e le conoscenze che nel corpo albergavano. “Soltanto gli uomini del nord hanno la forza d’animo di riposare con le armi in pugno e di dare la vita senza rimpianto”8. A Yen e a Chao innumerevoli furono i martiri e gli eroi, Liang Chow fu patria di guerrieri e predoni. All’inizio della dinastia Ching uomini come Yen Hsi-chai e Li Kang-chu praticavano le armi e le lettere. Yen Hsi-chai percorse più di mille li per imparare la scherma a nord della Grande Muraglia: combattè e vinse valorosi soldati. Per questo egli disse: “È giusta la Via senza conoscenza dell’arte letteraria e dell’arte militare?”. Ku Yan-wu, benché fosse originario del sud, preferiva abitare nel nord del paese: detestava viaggiare in battello e compiva ogni viaggio a cavallo. Oggi possiamo prendere a modello questi uomini dell’antichità.
Dopo l’apertura delle scuole che si ispirano a metodi di insegnamento stranieri, i costumi si sono gradualmente modificati. Tuttavia i direttori di corsi appartengono troppo spesso alla schiera di coloro che non desiderano abbandonare le vecchie abitudini. Essendo prigionieri delle loro abitudini non possono logicamente cambiare di punto in bianco. Se poi qualcuno di loro è relativamente disposto al nuovo, si interessa soltanto dell’aspetto esteriore delle cose senza penetrare in profondità ma tenendo in gran conto i particolari più minuti. Per questo, secondo il mio modesto parere, oggi l’educazione fisica è intesa in modo formale e se ne trascura la sostanza. Non mancano, è vero, corsi e insegnanti di ginnastica, ma pochi ne traggono beneficio. Questo stato di cose non porta alcuna utilità ma si risolve addirittura in danno. Gli insegnanti danno ordini che gli studenti si sforzano di eseguire: i loro corpi obbediscono ma non i loro cuori che rimangono ostili all’esercizio. I loro spiriti soffrono smisuratamente, e quando lo spirito soffre, soffre anche il corpo. Accade così che alla fine della lezione di ginnastica tutti hanno l’aria stanca e avvilita.
Quando ci si nutre, se si trascurano le regole dell’igiene, materie organiche e microbi penetrano nel corpo e causano malattie. Nelle aule la luce è scarsa, cosa che nuoce molto agli occhi. Tavoli e seggiole hanno dimensioni non adatte ai corpi e bisognerebbe quindi fare come chi taglia il piede per adattarlo alla scarpa.
Il corpo allora subisce un danno. Esempi di questo genere ve ne sono tanti da non poterli nemmeno enumerare. Per questo, secondo noi studenti, l’apertura di una scuola e l’insegnamento dei professori sono soltanto l’aspetto esteriore e oggettivo, ma c’è anche un aspetto interiore e soggettivo. Se la decisione è presa interiormente tutte le parti del corpo ubbidiscono al comando: fortuna e sfortuna non dipendono che da noi. “Se voglio essere virtuoso otterrò la virtù”9. E questo non è forse più vero per quanto riguarda l’educazione fisica? Quando manca la volontà di agire, anche se si pensa che l’esteriore, l’obiettivo, è buono e valido, non si ottiene alcun vantaggio. Questo è il motivo per cui, quando si parla di educazione fisica, bisogna cominciare dall’iniziativa individuale.

giovedì 12 marzo 2009

racconti di boxe

Il messicano
un racconto sul pugilato

Nessuno conosceva la sua storia, e meno che mai la conoscevano quelli della Giunta Rivoluzionaria. Era il loro piccolo mistero, il loro grande patriota, e a modo suo lavorava sodo quanto loro per l’imminente Rivoluzione messicana. Passò del tempo prima che riconoscessero questo fatto, perché a nessuno della Giunta piaceva quel ragazzo.
Il giorno in cui era capitato nelle loro stanze affollate, avevano subito pensato che fosse una spia, uno di quegli arnesi prezzolati dei servizi segreti di Porfidio Diaz: troppi erano i compagni rinchiusi nelle prigioni e nei carceri militari un po’ ovunque negli Stati Uniti, mentre altri ancora, proprio in quei giorni, venivano condotti in catene oltre la frontiera per essere messi al muro e fucilati…
Così, a prima vista, quel ragazzo non aveva fatto un’impressione gran che favorevole. Era proprio un ragazzo, non doveva avere più di diciotto anni, ed era anche piccolo e gracile per la sua età. Disse di chiamarsi Felipe Rivera, e che desiderava lavorare per la Rivoluzione. Altro non disse: non una parola di più, non una spiegazione. Rimase immobile, in attesa. Non un sorriso sulle labbra, non una luce negli occhi. Niente. Il grosso, frenetico Paulino Vera sentì un brivido corrergli dietro la schiena: era un qualcosa di terribile, di proibito, di insondabile. Negli occhi scuri del ragazzo si nascondeva qualcosa di velenoso, che faceva pensare a un serpente: ardevano come gelido fuoco, di qualcosa che sebrava essere una sconfinata e concentrata amarezza. E guizzavano di continuo, spostandosi dal viso d’uno dei ribelli alla macchina da scrivere cui attendeva operosa la signora Sethby. E quando la signora Sethby levò lo sguardo per caso, vide quei due occhi guardarla e percepì anch’essa qualcosa di strano e indecifrabile che la costrinse a interrompere per un attimo quel che stava facendo. E quando si rimise al lavoro, dovette rileggere quanto aveva scritto per riprendere il filo della lettura che stava battendo.
Paulino Vera scambiò uno sguardo interrogativo con Arrellano e Ramos, ed essi gli risposero con uno sguardo altrettanto interrogativo, e un altro se ne scambiarono fra di loro. Il dubbio e l’indecisione riempivano i loro occhi. Quel ragazzino magro e affusolato era l’Ignoto, pieno di tutti gli attributi dell’Ignoto. Era inafferrabile, e sfuggiva alla visuale di quei rivoluzionarti semplici e onesti, il cui odio feroce e totale per Diaz e per la sua tirannia altro non era, dopotutto, che l’odio di patrioti semplici e onesti. Il ragazzo era qualcos’altro, qualcosa che nessuno di loro avrebbe potuto dire.
Poi, però, Vera, come sempre il più impulsivo e rapido nell’agire, ruppe il silenzio.
“Molto bene”, disse con voce fredda e impersonale. “Dunque, vuoi lavorare per la Rivoluzione. Bene. Allora, comincia a toglierti la giacca, e appendila laggiù…Vieni, ti faccio vedere dove sono i secchi e gli strofinacci…Il pavimento è lercio. Comincerai fregandolo per bene, e poi passerai al pavimento delle altre stanze. Poi, vanno pulite le sputacchiere, e dopo le finestre…”.
“E’ per la Rivoluzione, questo?”, domandò il ragazzo.
“Si, è per la Rivoluzione”, gli disse Vera.
Il ragazzo li guardò tutti con un’espressione di freddo sospetto. Poi, si sfilò la giacca.
“Va bene”, disse.
Non aggiunse altro. Si presentava al lavoro giorno dopo giorno e spazzava, fregava, puliva. Vuotava le ceneri della stufa, portava la legna e il carbone, accendeva il fuoco prima ancora che il più attivo della Giunta si fosse seduto alla propria scrivania.
Un giorno chiese:
“Posso dormire qui?”
Ah, ecco di nuovo la mano di Diaz, che a poco a poco si mostrava! Dormire nella sede della Giunta voleva dire aver facile accesso ai loro segreti, alle liste dei nomi, agli indirizzi dei compagni in terra messicana. Il permesso gli fu negato, e Rivera non tornò più sulla cosa. Ignorava dove dormisse, e dove mangiasse. Una volta, Arellano gli offrì un paio di dollari; Rivera rifiutò con un cenno della testa, e quando Vera intervenne per convincerlo ad accettarli disse:
“Lavoro per la Rivoluzione”.
Oggi, per mandare avanti una rivoluzione ci vuole denaro, e la Giunta rivoluzionaria era costantemente con l’acqua alla gola. I militanti davano tutti loro stessi, saltavano i pasti, sgobbavano, le loro giornate non erano mai abbastanza lunghe. Pure, c’erano momenti in cui il destino della Rivoluzione sembrava dipendere dalla miseria di un paio di dollari.
La prima volta che successe, quando erano indietro di due mesi nel pagamento dell’affitto della sede e il padrone di casa minacciava di cacciarli, fu proprio Felipe Rivera, il ragazzetto smunto dagli abiti lisi e sporchi, che fregava i pavimenti, a deporre sulla scrivania di may Sethby la bella somma di sessanta dollari. E ci furono altri episodi: come la volta in cui trecento lettere giacevano ammucchiate in attesa d’essere affrancate e spedite, trecento lettere che chiedevano aiuto e sostegno alle organizzazioni sindacali, che reclamavano un equo trattamento dai direttori dei giornali, che protestavano contro le ingiuste condanne inflitte ai rivoluzionari dai tribunali statunitensi…
Erano già spariti l’orologio di Vera, quel vecchio cipolline d’oro che era appartenuto al padre, e il semplice anellino d’oro che proma ornava l’anulare di May Sethby. E adesso la situazione era davvero disperata. Ramos e Arellano si tormentavano i baffi con fare angosciato. Le lettere dovevano partire, ma L’Ufficio postale non faceva più credito. Fu allora che Rivera prese il cappello e se la filò. Al ritorno, depose sulla scrivania di May Sethby mille francobolli da due cents.
“E se fosse l’oro maledetto di Diaz?”, fece Vera, volgendosi ai compagni.
Perplessi, non poterono far altro che inarcare il sopracciglio, senza rispondere. E Felipe Rivera, il lavapiatti della Rivoluzione, continuò, tutte le volte che ce n’era bisogno, a versare alla Giunta oro e argento.
Eppure, non riuscivano ad amarlo. Non lo conoscevano, il suo modo di comportarsi non era il loro: non si lasciavano andare a confidenze, respingeva qualunque approccio. E, per quanto fosse un ragazzino, non riuscivano a trovare il coraggio di fargli delle domande.
“Non so cosa dire…Forse è uno di quegli spiriti grandi e solitari…Chissà?”, disse Arellano, quasi sconsolato.
“E’ privo di umanità”, disse Ramos
“E’ come se avesse l’animo inaridito, secco”, disse May Sethby. “E’ come se la luce e il riso gli fossero stati bruciati via…E’ morto, eppure paurosamente vivo”.
“E’ passato attraverso l’inferno”, aggiunse Vera. “Solo chi è passato attraverso l’inferno può avere un aria simile… E pensare che è solo un ragazzo!”.
Ma non riuscivano ad amarlo. Non parlava mai, non faceva domande, non offriva suggerimenti; e mentre essi si accaloravano parlando della Rivoluzione, egli se ne stava in ascolto, privo d’espressione, un morto vivente, tranne che per gli occhi che ardevano freddi: quegli occhi che correvano da un viso all’altro, da un oratore all’altro, penetranti come succhielli di ghiaccio incandescente, sconcertanti, inquietanti.
“non è una spia”, sussurrò Vera e May Sethby. “E’ un patriota, E, ascolta quel che ti dico, il patriota più grande fra tutti noi… Lo so, lo sento, qui nel cuore, e qui nella testa. Però non lo conosco assolutamente”.
“Ha certo un pessimo carattere”, fece May Sethby. “Gia”, rispose Vera con un brivido. “M’ha fissato con quei suoi occhi…Sono occhi privi di amore, quelli… Minacciano, sono selvaggi come quelli d’una tigre. So che, se mai dovessi tradire la Causa, mi ucciderebbe… Non ha cuore, è spietato come l’acciaio, freddo e tagliente come il gelo. E’ come la luce della luna in una notte d’inverno, quando la gente muore di freddo in cima a qualche montagna solitaria…Di Diaz e dei suoi macellai io non ho paura, ma di questo ragazzo, si ho paura… te lo dico sinceramente: ho paura. E’ come il soffio della morte…”.
Eppure, fu proprio Vera a convincere gli altri a dare un incarico di fiducia a Rivera, la prima volta. La linea di comunicazione tra Los Angeles e la California meridionale era stata interrotta, e già tre militanti erano stati catturati e obbligati a scavarsi la fossa, prima di essere fucilati a sangue freddo. Altri due erano in mano americana a Los Angeles. Juan Alvarado, il comandante federale, era un mostro: mandava a monte i loro piani, ed essi non riuscivano più a mettersi in contatto con i rivoluzionari attivi già da tempo con quelli che a poco a poco stavano avvicinandosi alla Rivoluzione, nella California meridionale.
Così, il giovane Rivera ricevette le sue istruzioni e parti alla volta del sud. Quando fece ritorno, la linea di comunicazione era stata ristabilita, e Juan Alvarado era morto: l’avevano trovato cadavere nel suo letto, un coltello piantato nel petto fino all’elsa. Il che non rientrava nelle istruzioni date a Rivera: ma quelli della Giunta conoscevano bene i suoi spostamenti. Non gli chiesero nulla, ed egli non disse nulla; ma si guardarono in faccia e fecero congetture.
“Ve lo dicevo”, disse Vera. “Diaz ha più da temere da questo ragazzo che da chiunque altro. E’ implacabile, è la mano di Dio”.
Il pessimo carattere di cui parlava May Sethby e che tutti in qualche modo percepivano era reso ancor più evidente da certi segni riscontrabili sul suo corpo. Compariva spesso in sede con un labbro spaccato o un occhio nero o un orecchio gonfio: era chiaro che doveva essere finito in una rissa da qualche parte, in quel mondo esterno in cui mangiava e dormiva e si guadagnava la vita in modi ad esse del tutto sconosciuti. Con il tempo, s’era messo a comporre i caratteri del piccolo foglio rivoluzionario che pubblicavano settimanalmente: e ci furono volte in cui non poteva fare il suo lavoro perché aveva le nocche sbucciate e sanguinanti, o un pollice slogato e inutilizzabile, o un braccio che gli penzolava dolorante lungo il fianco, il viso contratto in una smorfia di muto dolore.
“E’ un attaccabrighe…” diceva Arrellano.
“Chissa che razza di postacci frequenta…”, aggiungeva Ramos.
“Quello che non capisco è da dove tira fuori il denaro…”, interveniva Vera. “Oggi, ad esempio, due minuti fa…bé, ho scoperto che ha saldato il conto della carta… E sono 140 dollari!”.
“E quelle sue assenze misteriose?”, diceva May Sethby. “Non le giustifica mai, non ne parla…”.
“Forse dovremmo mettergli qualcuno alle costole” propose un giorno Ramos.
“Ah, non vorrei essere io, quel qualcuno!”, esclamo Vera. “Credo proprio che non mi vedreste più, se non per farmi un bel funerale! Dentro ha come una passione tremenda… Credo che non permetterebbe nemmeno a dio in persona di mettersi fra lui e la sua passione…”.
“Mi sento come un bambino, quando gli sono davanti”, confesso Ramos.
“Per me, invece, è… è la personificazione di ciò che è potente… Non so… E’ il primitivo, il lupo selvaggio, il serpente pronto a colpire, il centopiedi velenoso…”, aggiunse Arrellano.
“E’ la Rivoluzione incarnata”, disse Vera. “E’ la fiamma e lo spirito della Rivoluzione, è il grido di vendetta insaziabile che non fa rumore ma uccide in silenzio. E’ l’angelo vendicatore che s’aggira nella quiete della notte”.
“Mi fa una gran pena, da piangere!…”, disse May Setbhy. “Non conosce nessuno, odia tutti, noi ci tollera perché siamo gli strumenti del suo desiderio. E’ solo e solitario…”
La voce le si spezzò in un singhiozzo soffocato, mentre gli occhi le si velavano di tristezza.
In effetti, le abitudini e gli spostamenti di Rivera rimanevano misteriosi. In certi casi, scompariva per una intera settimana; una volta, restò via più di un mese. Ma le sue assenze, si concludevano, sempre con un ritorno a sorpresa: senza dir nulla né spiegar nulla, Rivera arrivava e rovesciava sulla scrivania di May Sethby una manciata di monete d’oro. Poi, per giorni e settimane, trascorreva il suo tempo con la Giunta. E tuttavia, per periodi irregolari, tornava a scomparire a metà giornata, o dal mattino presto a pomeriggio inoltrato. In quelle occasioni, si faceva vivo alle prime ore dell’alba, e la sera restava fino a tardi. Arrellano lo sorprese una volta a mezzanotte che, le dita sbucciate di fresco e ancora sanguinanti, componeva caratteri: altre volte, ad essere sanguinante, era il labbro, o uno zigomo…

II

Il momento decisivo s’avvicinava, gli sviluppi della Rivoluzione, il suo esito, dipendevano dalla Giunta. E la Giunta era con l’acqua alla gola. Il bisogno di denaro si era fatto ancor più disperato; ma al tempo stesso il denaro era diventato ancor più difficile da scovare. I patrioti avevano dato fino all’ultimo soldo, di più non potevano dare. Gli addetti alla manutenzione dei tratti ferroviari, peoni fuggiti dal Messico, contribuivano con metà del loro già magro salario. Ma di ben altro la Rivoluzione aveva bisogno.
L’instancabile lavoro condotto clandestinamente per anni stava per dare i propri frutti. Il momento era propizio e la Rivoluzione viaggiava sul filo d’un rasoio: una sola spinta, un unico sforzo finale, e la bilancia della storia avrebbe cominciato a pendere dalla sua parte. Quelli della Giunta conoscevano bene il loro Messico: una volta scoppiata, la Rivoluzione avrebbe proseguito da sola, e l’intera macchina del governo Diaz sarebbe crollata come un castello di carte.
Le zone di confine erano già pronte a sollevarsi; un compagno yenkee, al comando di un centinaio di militanti operai degli Industrial Workers of the World, attendeva solo la parola d’ordine per varcare il confine e procedere alla conquista della California meridionale. Ma aveva bisogno di fucili.
E c’erano altri sostenitori, dalla California alla riva dell’Atlantico, e la Giunta era in contatto con tutti. E tutti avevano bisogno di fucili. Erano puri e semplici avventurieri, o soldati di fortuna, o giovani attaccabrighe, o banditi; ma anche sindacalisti americani insoddisfatti ed esasperati, e socialisti, e anarchici, ed esuli messicani, e peoni sfuggiti alla servitù, e minatori reduci dalle violenze sofferte nei campi di concentramento improvvisati di Coeur D’Alene e del Colorado, che desideravano lavare nella lotta i torti subiti. In una parola, tutta la schiuma di spiriti ribelli prodotti da quel folle e complicato mondo moderno. E il grido continuo di tutti costoro era: “fucili e munizioni! Munizioni e fucili!”.
Se solo si fosse potuto lanciare questa massa eterogenea, arrabbiata, disperata attraverso la frontiera, la Rivoluzione sarebbe scoppiata, inarrestabile. I posti di dogana e i porti d’entrata settentrionali sarebbero caduti in mano ai ribelli. Diaz non avrebbe potuto opporre resistenza, non avrebbe osato gettare contro di loro tutti il peso dei propri eserciti perché doveva controllare la zona meridionale del Messico. E la fiamma si sarebbe propagata in ogni caso verso sud, il popolo sarebbe insorto, città dopo città le difese sarebbero crollate, stato dopo stato i governi locali si sarebbero sgretolati. E alla fine, le armate vittoriose della Rivoluzione avrebbero chiuso la propria morsa sulla stessa Citta del Messico, l’ultima roccaforte di Diaz.
Ma, i soldi? Disponevano degli uomini, impazienti, irruenti, pronti ad usare i fucili; e conoscevano i mercanti d’armi disposti a vendere e consegnare i fucili. Ma lo sforzo per alimentare la Rivoluzione, giorno dopo giorno, fino a quel momento, aveva dissanguato la Giunta. L’ultimo dollaro era stato speso, ogni risorsa prosciugata, munto l’ultimo patriota affamato: e la grande avventura era ancora in bilico, sul filo del rasoio! Fucili e munizioni! Munizioni e fucili! Bisognava armare quell’esercito di straccioni. Ma come? Ramos rimpianse le proprie terre confiscate, Arrellano si rimproverò d’aver scialacquato a più non posso in gioventù, may Sethby si chiese cosa sarebbe cambiato se la Giunta fosse stata più oculata in passato…
“E’ tremendo pensare che la libertà del Messico possa dipendere da poche misere migliaia di dollari!”, esclamò sconsolato Paulino Vera.
Lo sconforto era sui visi di tutti. L’ultima loro speranza, quel Josè Amarilli che s’era convertito di recente alla causa e aveva promesso denaro in quantità, era stato catturato nella sua hacienda di Chihuahua e passato per le armi contro il muro delle stalle, la notizia era giunta da poco.
Rivera stava lavando i pavimenti in ginocchio: alzò lo sguardo e rimase un attimo con la spazzola sospesa a mezz’aria, le braccia sporche e insaponate fino la gomito.
“Bastano 5000 dollari?”, chiese.
Lo guardarono con stupore. Vera fece cenno di si con la testa e inghiotti in silenzio: non riusciva a parlare, ma d’improvviso di sentì pervaso da una enorme fiducia.
“Ordinate pure i fucili”, fece allora Rivera, e poi si lasciò andare al più lungo fiotto di parole che mai l’avessero udito pronunciare. “C’è poco tempo. Tre settimane, e vi faccio avere i 5000. va bene così, farà più caldo anche per combattere. E poi, più presto non ce la faccio”.
Vera cercò di resistere all’ondata di fiducia che aveva provato. Era incredibile, pazzesco. Troppe splendide speranze erano andate deluse da quando aveva cominciato a giocare a quel gioco. Credeva a quello straccione d’un lavapiatti della Rivoluzione, e al tempo stesso non osava farlo.
“Sei pazzo”, gli disse.
“Tre settimane”, ripeté Rivera, “Cominciate a ordinare i fucili”. Poi s’alzo, si tirò giù le maniche arrotolate, s’infilò il cappotto. “Ordinate i fucili”, disse ancora. “Io adesso vado”.

III

Finalmente, dopo tanto trambusto, una catena di telefonate e una buona dose di bestemmie, quella sera riuscirono ad incontrarsi nell’ufficio di Kelly. Kelly era letteralmente travolto dal lavoro; e in più era sfortunato. Era riuscito a far venire da New York Danny Ward, gli aveva combinato un ottimo incontro con Billy Carthey, da tenersi entro tre settimane… Ed ecco che, da almeno due giorni, Carthey se ne stava inchiodato a letto per un brutto infortunio, accuratamente nascosto agli occhi indiscreti dei cronisti! Non c’era nessuno che lo potesse sostituire. Kelly aveva fatto telefonate a tappeto, a est, a tutti i possibili pesi leggeri: niente, avevano i loro contratti, le date già fissate per i loro incontri, e così via…
Ora, però, un filo di speranza, proprio solo un filo, era tornato a splendere.
“Hai un bel fegato, sai?!”, fece Kelly rivolto a Rivera dopo avergli lanciato una rapida occhiata, non appena furono l’uno di fronte all’altro.
Negli occhi di Rivera brillava una luce selvaggia d’odio; ma il viso rimase impassibile.
“Posso suonarle a Ward”, si limito a dire.
“come diavolo fai a saperlo? L’hai mai visto combattere?”.
Rivera scosse il capo.
“Guarda che è capace di metterti giù a occhi chiusi e con una mano legate…”.
Rivera scrollò le spalle.
“Bè, non hai niente da dire?”, ghignò l’organizzatore.
“Posso suonargliele quando voglio”.
“E fino ad ora con chi ti sei battuto?”, gli chiese Michael Kelly, il fratello dell’organizzatore, che dirigeva le sale da bigliardo dello Yellostown e faceva fior di quattrini con gli incontri di boxe.
Rivera gli lanciò una occhiata fredda e muta.
Il segretario dell’organizzatore, un tipo tutto azzimato e distinto, uscì in un mezzo ghigno di disprezzo.
“Comunque sia, sapete bene com’è Roberts”, disse poi Kelly rompendo quel silenzio carico di tensione. “E’ bene che ci sia anche lui. L’ho mandato a chiamare. Tu, siediti, e aspetta… Anche se, te lo dico subito, a giudicare dal tuo aspetto non mi pare che tu abbia grandi possibilità… Mica posso fregarmene del pubblico e scaricargli un incontro del cavolo! Lo sai a quanto sono andati via i posti di bordo ring? A 15 dollari!…”.
Quando arrivo Roberts, fu chiaro a tutti che era mezzo ubriaco. Era un uomo alto e magro, dinoccolato, e aveva un passo languido e strascicato come il tono della voce. Kelly andò dritto al punto.
“Senti un po’, Roberts… Non hai fatto altro che vantarti di aver scoperto questo ragno d’un messicano… Bene. Sai che Carthey s’è rotto un braccio. Bene. Ora, questo ragno ha il fegato di saltarsene fuori proprio oggi, e di dire che al posto di carthey se la sente di andarci lui, Che razza di storia è, questa?”.
“E’ tutto ok, è tutto ok”, rispose Roberts con voce annoiata. “Vedrai che ce la farà”.
“Ah! Adesso va a finire che mi dai anche a intendere che le può suonare a Ward!”, fece Kelly in tono ironico.
Per qualche istante, Roberts considerò la cosa con grande serietà; poi rispose:
“No, non dico questo. Ward è di prima classe, è un generale del ring. Però non riuscirà mai a far un boccone di Rivera! Lo conosco, Rivera… E’ una pellaccia dura da scuoiare. Non è l’agnello da mandare al sacrificio credetemi!… E combatte con tutt’è due le mani, è capace di sparare cannonate da qualunque posizione…”.
“Non me ne frega niente! Quel che voglio sapere è che razza di incontro è capace di imbastire. Roberts, hai scoperto e allenato pugili per una vita, mi fido della tua opinione… Quel che ti chiedo è questo: il ragno, qui, è in grado di dare al pubblico quel che ha pagato?”.
“Senza dubbio. E ti dico di più: vedrai che darà del filo da torcere a Ward… Voi il ragazzo non lo conoscete, io sì. Lo scoperto io! Non è un materasso, è un diavolo! E’ una saetta scatenata, credetemi… vedrete che Ward avrà il suo da fare con questo piccolo talento locale… vedrete che starete sulle spine, quella sera, oh, si! Ora, non dico assolutamente che le suonerà a Ward, intendiamoci… no… Ma sono sicuro che è capace di metter su uno spettacolo niente male… Vi farà capire che è una piccola promessa, il messicano…”.
“Ok, allora”, e Kelly si volse al segretario. “Telefonate a Ward. L’avevo avvertito che l’avrei mandato a chiamare se era il coaso. E’ qui di fronte, allo Yellowstone, a fare un po’ di bisboccia coi suoi tifosi…”.
Poi, Kelly si rivolse a Roberts di nuovo e gli chiese: “Qualcosa da bere?”. Roberts sorseggiò il liquore, e a poco a poco comincio a sbottonarsi:
“T’ho mica raccontato com’è che ho scoperto il bastardo? E’ stato un paio d’anni fa… s’è fatto vivo lui in palestra… Stavo allenando Prayne per l’incontro con Delaney. E Praney, sapete, è una bestia, una vera bestia, non ha dentro un briciolo di umanità… Aveva fatto appena a pezzi il suo sparring partner, dico proprio a pezzi, eh…una cosa tremenda…E non riusciva a trovare nessuno disposto a farsi massacrare. L’avevo già visto, quel messicano, girava intorno alla palestra con aria affamata; ed ero, voi mi capite: ero disperato! Così, un giorno, lo prendo per il bavero, gl’infilo i guantoni e lo sbatto sul ring. Bene, era uno tosto, crudo, anche se fragilino. E non sapeva una sola lettera dell’alfabeto del ring. Prayne lo fece a fettine: ma quello riuscì a tener duro per due round che avrebbero distrutto chiunque. Poi svenne… Ma di fame! capite? Se era malridotto? Diamine, era irriconoscibile! Gli offro mezzo dollaro e un pranzo coi fiocchi. E, Cristo!, avreste dovuto vederlo, come se l’è divorato, quel pranzo! Saran stati due giorni che non metteva nulla sotto i denti! E con ciò a chiuso, penso io. E invece, il giorno dopo, eccolo lì di nuovo, tutto legato e dolorante, pronto per un altro mezzo dollaro e un pranzo. E man mano che passavano i giorni, migliorava, accidenti se migliorava! Un pugile nato, tosto da non credersi! Niente cuore, un pezzo di ghiaccio. Da quando lo conosco, non l’ho sentito infilare dieci parole di seguito… Macina, e fa il suo lavoro…”.
“Già, ho visto”, commentò il segretario. “Ha lavorato parecchio con te…”
“Bè, sai, quasi tutti i campioncini locali l’hanno incontrato”, rispose Roberts. “ E da loro ha imparato parecchio. Ne ho visti alcuni che forse poteva anche mettere al tappeto. Gli è mancato…come dire?, il cuore… Credo che la boxe non gli sia mai andata a genio. Almeno, quella era l’impressione che dava…”.
“S’è battuto parecchio nei club locali, negli ultimi mesi”, fece Kelly.
“Vero. Ma non so cosa gli ha preso. D’improvviso, è come se ci mettesse tutta l’anima, tutto se stesso. T’arriva come un fulmine e ti spiazza via tutti gli idoli locali… Sembra quasi che boxi per denaro. E ne ha intascato parecchio, di denaro, anche se non si direbbe a giudicare da come va in giro vestito… Ah, si, è un originale! Nessuno sa che mestiere faccia; o come passi il tempo… Anche se durante gli allenamenti, appena finito, paff, scompare e nessuno riesce a scoprire dove si è ficcato. Ci sono delle volte che scompare per settimane intere… Ma non vuole dare retta a nessuno. V’assicuro che il tizio che riesce a prenderlo setto le sue ali trova un tesoro. Ma lui non ne vuole sapere. E quando s’arriva ai termini del contratto, quel che vuole sono i contanti, e di lì non lo smuove nessuno…”.
Fu a quel punto che arrivò Danny Ward con tutta la sua combriccola, il manager e l’allenatore, e sembrò portare con sé una fresca ventata di allegria e di buon umore. Lanciò saluti a destra e a manca, uno scherzo qua, una beccata là, per tutti un sorriso o una risata: era il suo modo di fare, solo in parte sincero, perché Ward era anche un buon attore ed aveva scoperto che mostrarsi di buon carattere era una carta provvidenziale nel gioco di farsi strada. Ma, al di là delle apparenze, c’era il pugile e l’uomo d’affari freddo e calcolatore, deciso e spietato. Il resto era solo una maschera. E quelli che lo conoscevano o avevano rapporti con lui dicevano che, se gli si doveva cercare un nomignolo, il più adatto era certo “Danny-al-posto-giusto-nel-momento-giosto”. Era immancabilmente presente a tutte le discussioni d’affari, e qualcuno insinuava anche che il manager era in realtà un semplice galoppino, con l’unica finzione di servire da intermediario e portavoce di Danny.
Rivera si comportava in modo del tutto diverso. Nelle sue vene scorreva sangue indiano e spagnolo, ed egli sedeva immobile e silenzioso in un angolo, e l’unica parte del suo corpo che si muovesse erano gli occhi che correvano da un viso all’altro, annotando ogni cosa.
“E’ quello lì il tizio?”, chiese Danny lanciando uno sguardo scrutatore all’avversario che gli veniva proposto. “Ehi, come ti va?”. Gli occhi di Rivera brillarono velenosi, ma il ragazzo non rispose. I gringos non gli piacevano, e questo gringo aveva cominciato ad odiarlo subito, con una rapidità che insolita perfino per lui.
“Ehilà!”, protestò scherzoso Danny, rivolto all’organizzatore. “Non dovrò mica battermi con un muto, eh!?”. Poi, non appena la risata generale tacque, uscì in un’altra battuta: “Dev’essere ridotta ben male Los Angeles se questo è il meglio che siete riusciti a trovare! Da che asilo viene?”. “E’ a posto, Danny, credimi”, intervenne Roberts, “Non è così facile come sembra…”.
“E poi abbiamo già venduto mille biglietti….”, fece con aria implorante Kelly. “Devi accettare per forza, Danny. Dì più proprio non ci si riesce di fare…”.
Danny lanciò una seconda occhiata piena di disprezzo e indifferenza a Rivera, e sospirò.
“immagino che dovrò esser carino con lui… Se non scappa prima!”. Roberts bofonchiò: “E invece dovrai starci attento”, lo ammonì il manager. “E’ meglio non prendere troppo alla leggere una sacco di patate che poi magari è capace di trovare la sventola fortunata…”. “Ok, ok! Ci starò attento! Lo prometto…”, sorrise Danny. “Lo prenderò tra le braccia al primo gong e me lo cullerò per benino, per amore del nostro caro pubblico. Che ne dici di quindici riprese, Kelly? E poi gli diamo la biada…”.
“Si, d’accordo”, fu la risposta. “Se pensi di farle sembrare realistiche…”. “Allora, parliamo d’affari, adesso”. Danny fece una pausa, intento a calcolare a mente. “Naturalmente, diciamo 65% degli incassi, come con Carthey… Ma la percentuale dovrà essere diversa. A me, va bene l’80%”. Poi, rivolto al menager: “Ti pare?”. Il manager annuì.
“Ehi, tu, hai capito?”, Kelly chiese a Rivera. Rivera scosse il capo. “Allora”, spiego Kelly. “Le cose stanno a questo modo: la borsa sarà uguale al 65% degli incassi. Tu sei uno sconosciuto, sei un materasso, un sacco di patate. E dunque la borsa verrà divisa fra te e Danny a questo modo: il 20% per te e l’80% per Danny. Mi pare giusto, no? Vhe ne dici, Roberts?”.
“E’ giusto Rivera”, convenne l’allenatore. “vedi, non ha ancora un nome”.
“E quanto sarà il 65% delle vendite, in dollari?”, domando Rivera.
“Mah, forse 5000 dollari, forse addirittura 8000…”, fece Danny. “Una cosa del genere. La tua parte sarà intorno ai 1000-1500 dollari. Niente male come ricompensa per ssererti preso una lisciata da uno come me! Che ne dici?”. Fu allora che Rivera li fece ammutolire. “Tutta la borsa al vincitore”, senza mezzi termini. Un silenzio di morte piombò nella stanza. “Ma è come strappare un dolce ad un bambino!”, esclamò il manager di Danny. Danny scosse il capo. “Sentite”, disse poi. “E’ troppo che sono nel giro… E badate bene: non è che faccio illazioni sull’arbitro o sui presenti… e non parlo nemmeno delle cosche delle scommesse o degli incontri truccati che ogni tanto si fanno… No! Dico solo che per un pugile come me non è un buon affare. Io mi batto alla luce del sole, non c’è nessuno che può negarlo. Ma, mettere che mi rompa un braccio… O che qualcuno riesca a drogarmi in qualche modo…”. Di nuovo, scosse la testa solennemente. “No, no. Vittoria o sconfitta, la mia parte, sarà dell’80%. Che ne dici, allora messicano?”.
Rivera fece di no con la testa. Allora, Danny esplose. Ormai, la via degli epiteti e delle parole grosse era imboccata. “Cristo, piccolo sporco Brillantina del cavolo! Mi fai venire voglia di spaccarti il grugno qui, su due piedi!…”. Roberts si fece avanti per impedire che i due venissero alle mani. “Tutta la borsa al vincitore”, ripetè impassibile Rivera. “ma perché diavolo t’impunti così?”, sbraitò Danny. “Perché posso suonartele”, fu la secca risposta. Danny fece il gesto di sfilarsi la giacca, ma il suo manager sapeva che era solo un gesto e nulla più. E infatti la giacca rimase dov’era, e Danny si fece facilmente calmare dai presenti. Erano tutti d’accordo con lui. Rivera se ne stava solo, in disparte. “Senti un po’, razza d’imbecille”, riprese a dire Kelly. “Tu non sei nessuno. Sappiamo quel che hai fatto negli ultimi mesi: hai messo a nanna i pugili di qui. Ma Danny è un'altra cosa, ficcatelo in testa. Danny è la classe, capisci? Il suo prossimo incontro, dopo questo, sarà per il titolo. E tu sei sconosciuto. Fuori di Los Angeles, nessuno ha mia sentito mai parlare di te…”.
“Lo faranno presto”, replicò Rivera con un’alzata di spalle. “Dopo quest’incontro”.
“Ma davvero, anche solo per un secondo, ha pensato di potermele suonare?”, sbottò Danny. Rivera annuì.
“Oh, Cristo santo… Ma dai retta al tuo cervello!”, lo implorò Kelly. “Pensa solo all’immagine, alla pubblicità…”. “Voglio quel denaro”, fece Rivera impassibile. “Non potresti battermi ,i nemmeno se ci tentassi per cent’anni di seguito”, lo assicurò Danny.
“E allora, com’è che rifiuti?”, ribattè Rivera. “Se pensi che sia così semplice guadagnare quel denaro, perché non acetti?”.
“Ma certo che acetto!”, esplose Danny con improvvisa decisione. “Ti farò sputar sangue, là sul ring, ragazzo mio, così imparerai a fare il cretino con me a questo modo. Kelly, metti nero su bianco… D’accordo: tutta la borsa al vincitore, d’accordo! E vedi che venga fuori ben chiaro sulle pagine sportive. Spiega ai giornali che si tratta di un incontro di ripego. Gli farò vedere i sorci verdi, a questo frescone!”.
Il segretario di Kelly aveva già cominciato a scrivere quando Danny lo interruppe: “Alt! Ferma!”. Poi, si volse di nuovo a Rivera: “ Le operazioni di peso?”, “A bordo ring”. “Eh, no carino! Nemmeno per sogno! Se la borsa è tutta la vincitore, ci pesiamo alle dieci del mattino”.
“E la borsa al vincitore?”, chiese ancora Rivera. Danny assentì, e le cose furono sistemate. Sarebbe salito sul ring nel pieno delle forze. “Peso alle dieci, allora”, accettò Rivera.
La penna del segretario continuava a scrivere. “Significa cinque libre, te ne rendi conto?”, si lamentò Roberts con Rivera. “Gli hai concesso troppo, accidenti! Hai buttato via le tue possibilità, ragazzo! Danny sarà forte come un bue… Sei uno sciocco, ecco cosa sei. Te le suonerà di anta ragione… Hai tante probabilità di farcela quanto una goccia di rugiada di cadere all’inferno!…”.
La risposta di Rivera fu solo uno sguardo calcolato pieno d’odio. Odiava e disprezzava anche questo gringo, ai suoi occhi era il gringo più bianco di tutti.

IV

Quando Rivera salì sul ring, quasi nessuno lo notò. Solo un filo d’applausi poco convinti lo accolse: era chiaro che il pubblico non credeva in lui, lo considerava l’agnello sacrificale offerto ai pugni del grande Danny Ward. E poi, il pubblico era contrariato perché s’era aspettato un incontro al color bianco fra Danny Ward e Bily Carthey, e invece doveva accontentarsi degli sgambettamenti di quel povero principiante. Fra l’altro, aveva manifestato il proprio disappunto per il cambiamento di programma scommettendo due a uno, e perfino tra a uno, su Danny. E là dove sta il denaro dello scommettitore, batte anche il suo cuore.
Il messicano sedette nel suo angolo, in attesa. I muniti si trascinavano lenti. Danny lo faceva aspettare, un trucco vecchio come la boxe che però faceva sempre il suo effetto sui giovani inesperti. La tensione e la paura crescevano, mentre attendevano seduti nell’angolo, soli con le loro ansie, davanti a un pubblico incallito avvolto in una nuvola azzurrina di fumo di tabacco.
Ma quella volta il trucco non ebbe effetto. Roberts aveva ragione, Rivera non era un capro espiatorio, un materasso: costruito in modo più elegante di qualunque altro pugile, più armonioso e più finemente coordinato, il giovane ignorava quel genere di nervosismo.
L’atmosfera stanca e rassegnata che regnava nel suo angolo non aveva su di lui effetto alcuno. Anche i suoi secondi erano dei Gringos, degli stranieri; ed erano anche la feccia della boxe, i rimasugli dell’ambiente, gente priva di onore e di professionalità, ed erano paralizzati dalla certezza che il loro angolo fosse quello destinato alla disfatta.
“Ora, stammi attento”, lo ammonì “Ragno” Hagerty, il capo dei secondi. “Devi durare finchè hai la forza di stare in piedi… Sono queste le istruzioni di Kelly. Altrimenti, i giornali scriveranno che quest’incontro è stato un'altra bufala, e allora sai che bel nome si farà la boxe qui a Los Angeles!…”.
Il tutto non era precisamente incoraggiante. Ma Rivera non ci fece caso. Odiava la boxe. Era lo sport odioso dell’odiato Gringo. Se aveva cominciato a incrociare i guantoni, facendo da sacco di allenamento per gli altri pugili, era stato per fame. E il fatto che sembrasse costruito apposta per quello sport non voleva dir nulla. Lo odiava. Solo quando era entrato a far parte della Giunta, aveva cominciato a battersi per denaro, e aveva scoperto che il denaro arrivava facilmente. Al pari di tanti altri come lui, e prima di lui, aveva scoperto d’essere abile in un mestiere che disprezzava.
Non perdeva tempo in riflessioni. Sapeva solo di dover vincire quell’incontro. Non poteva esserci esito diverso, perché dietro di lui si muovevano forze ben più vaste e profonde di quanto la platea affollata potesse immaginare, che lo ancoravano saldamente a quella convinzione. Danny Ward si batteva per denaro, e per la bella vita che il denaro gli consentiva. Ma le cose per cui si batteva Rivera gli bruciavano ardententi nel cervello: visioni infuocate e terribili che coglieva nitidamente, come le stesse vivendo di nuovo mentre sedeva solitario nel suo angolo, gli occhi spalancati, in attesa del suo consumato e furbo avversario. Vedeva le fabbriche di Rio Blanco, dai muri candidi di gesso, e i seimila operai sfiniti e affamati, e i bambini di setto otto anni che sgobbavano lunghe ore massacrati in cambio di 10 cents la giornata. Vedeva quei cadaveri ambulanti, quelle mostruose teste di morto che sfacchinavano nei raparti verniciatura, e ricordava che suo padre chiamava il reparto verniciatura “il buco da suicidio” perché un anno passato a lavorarci voleva dire la morte certa…. E vedeva il piccolo patio, e la madre che, curva sui lavori di casa, trovava pur sempre il tempo di coccolarlo e di amarlo. E vedeva il padre grande e grosso, il petto possente, i baffoni neri, un gigante dolce e cordiale che amava tutti perché aveva un cuore così grande da contenere amore per tutti, oltre che per la moglie e il piccolo muchaco che sgambettava in fondo al patio. A quel tempo, lui non si chiamava Felipe Rivera, ma Juan Fernandez, il cognome del padre e della madre, il nome scelto da loro. Nome e congnome che aveva cambiato solo più tardi, quando aveva scoperto che Fernandez era un cognome odiato dai prefetti di polizia, dai jafes politicos, dai rurales.
Il grande e grosso, estroverso Joaquin Fernandez! Il padre occupava un posto rilevante nelle visioni di Rivera. Non l’aveva capito allora, ma lo capiva adesso che riandava indietro nel tempo con la mente. Lo vedeva intento a comporre caratteri nella piccola tipografia, o a scribacchiare instancabile e veloce frasi fitte in una calligrafia nervosa, sulla scrivania ingombrata di carte. E rivedeva quelle strane serate in cui il padre s’incontrava con operai, che giungevano dopo il tramonto come tanti cospiratori intenti a qualche azione illegale, e parlavano per ore e ore, e lui, il muchaco, se ne stava steso in un angolo della stanza, mezzo sveglio…
Poi, udì la voce di “ragno” Hagerty venire da un’enorme distanza:
“Non andare giù subito, mi raccomando! Sono queste le istruzioni. Prenditi le botte, e guadagnati il pane!”.
Erano già passati dieci minuti, ed egli sedeva ancora all’angolo. Di Danny, nessun segno: evidentemente, voleva andare fino in fondo con quel trucco.
Ma intanto altre visioni ardevano dentro a Rivera, davanti agli occhi della sua mente. Lo sciopero, o meglio la serrata, quando gli operai di Rio Blanco avevano solidarizzato con i loro compagni in sciopero a Puebla. E la fame tremenda, le spedizioni in collina a cercare bacche, radici, erbe, l’unico cibo a loro disposizione che poi torceva lo stomaco a tutti, fra crampi e dolori. E poi, l’incubo, l’orrore: lo spiazzo aperto davanti al magazzino della compagnia, le migliaia di lavoratori affamati, il generale Rosalio Martinez e le truppe di Porfirio Diaz; e i fucili che vomitavano morte e sembravano non fermarsi più mentre i torti dei lavoratori venivano lavati e rilavati, venivano affogati nel loro stesso sangue! E quella notte! Rivide i cadaveri ammucchiati sui carri dopo il massacro, pronti per essere spediti a vera Cruz e gettati in mare, in pasto ai pescecani della baia. E gli sembro d’essere ancora li, mentre si trascinava fra i mucchi di corpi tumefatti e insanguinati in ricerca del padre e della madre, per trovarli infine nudi e martoriati… Ricordava soprattutto la madre: solo il suo viso sporgeva dal mucchio, il resto del corpo era schiacciato sotto il peso di dozzine di cadaveri. Di nuovo abbaiarono i fucili dei soldati di Diaz, e di nuovo egli si stese a terra, e poi strisciò via, lontano, come un coyote braccato delle colline…
Un rombo gli giunse ora alle orecchie, come il rumoreggiare del mare. Vide Danny Ward avanzare dal corridoio centrale alla testa del suo codazzo di secondi e allenatori. Il pubblico applaudiva freneticamente, in piedi, quel suo beniamino che s’avviava verso una facile vittoria. Tutti inneggiavano a Ward. Tutti erano per lui. Perfino i secondi di Rivera si scossero dalla sconforto e manifestarono qualcosa di molto simile all’entusiasmo quando Danny balzò agilmente tra le corde e fece il suo ingresso sul ring. Il suo viso non faceva che atteggiarsi a un sorriso dopo l’altro, e quando Danny sorrideva era come se ogni segmento del suo viso sorridesse, fino alla sottile ragnatela di rughe che gli incorniciava gli occhi, fin nel profondo degli occhi stessi. Non s’era mai visto un pugile più entusiasta, più trascinante, più amato. Il suo viso era la pubblicità vivente del buonumore e dell’allegria. Conosceva tutti. Scherzava e rideva, e salutava gli amici sporgendosi oltre le corde. Gli spettatori più lontani, incapaci di reprimere l’ammirazione per il loro beniamino, urlavano a squarciagola.
“Ehi, Danny! Ciao!”.
Fu una travolgente ovazione, traboccante d’affetto, che duro cinque minuti buoni.
Nessuno badò a Rivera. Agli occhi del pubblico nemmeno esisteva. La faccia gonfia e congestionata di “ragno” hagerty s’avvicinò alla sua.
“Non farti prendere dal panico”, lo ammonì. “E ricordati le istruzioni! Devi stare in piedi! Non devi andar giù subito! Se via giù, ricordati che abbiamo l’ordine di picchiarti a sangue, dopo, negli spogliatoi. Quindi, datti una regolata! Hai capito? Devi batterti!…”.
Il pubblico prese ad applaudire. Danny attraversò il ring diretto all’angolo del messicano, si chinò e gli prese la mano fra le sue, stringendola con impulsivo calore. Il viso sorridente di Danny gli era a pochi centimetri dagli occhi. Il pubblico andò in delirio per quella prova di sportività da parte di Danny: salutare l’avversario con affetto fraterno!… Le labbra di Danny si mossero, e il pubblico urlò ancora di gioia immaginando che quelle parole che non poteva udire fossero il saluto e l’incoraggiamento di un atleta dal carattere aperto e dal buon cuore. Solo Rivera sentì quel che Danny sussurrava:
“Piccola pantegana d’uno sporco messicano, ti farò sputare sangue!”, furono le parole che quelle labbra eternamente atteggiate a un sorriso sibilarono all’indirizzo di Rivera.
Rivera non fece un gesto. Non si levò in piedi. Si limitò ad esprimere con gli occhi tutto il proprio odio.
“E tirati su, no, cane rognoso!”, sbraitò qualcuno alle spalle di Rivera, e la folla prese a fischiare e a manifestare il proprio dissenso per quella sua condotta poco sportiva. Ma Rivera rimase seduto impassibile. Un’altra salva d’applausi accompagnò Danny che faceva ritorno al proprio angolo. E quando si spogliò ci furono estatiche esclamazioni di meraviglia: aveva un corpo perfetto, sprizzante salute, forza e agilità. La pelle era bianca e serica come quella di una donna e copriva quanto di più armonioso e robusto e resistente potesse esserci. Danny lo aveva dimostrato in decine di battaglie. Le sue fotografie apparivano su tutte le principali riviste di cultura fisica.
Un muggito si levo quando “Ragno” Hagerty sfilò il maglione a Rivera. Il colore scuro della sua carnagione faceva sembrare ancor più magro il suo corpo. Aveva dei bei muscoli, ma non erano così in mostra come quelli del suo avversario. Ciò che il pubblico mancò di notare fu quel suo petto robusto, né potè immaginare la consistenza della fibra, o la rapidità con cui i suoi muscoli sapevano gonfiarsi e scattare, o la sottigliezza e sensibilità dei nervi che raccordavano ogni segmento del suo corpo e ne facevano una splendida macchina da combattimento. Ciò che il pubblico vide fu solo un ragazzino di diciott’anni, dalla pelle scura, con un corpo che era un corpo di un ragazzo.
Tutt’altra cosa Danny. Danny era un adulto di ventiquattro anni, ed il suo era un corpo da adulto. Il contrasto risultò ancor più evidente quando furono l’uno accanto all’altro, al centro del ring, a ricevere le ultime raccomandazioni dall’arbitro.
Rivera scorse Roberts seduto proprio dietro la fila di giornalisti: era più ubriaco del solito, e la sua parlata era ancora più lenta e strascicata.
“Prenditela comoda, Rivera”, biascicò Roberts. “Non ti può mica ammazzare, ricordatelo. Ti salterà subito in testa, ma non farti prendere dal panico. Chiuditi in difesa, vai in clinch, blocca… E vedrai che non ti farà poi tanto male. Fa finta che stia solo suonandotele un po’ in palestra, in allenamento…”.
Rivera non mostrò d’aver udito.
“Schifoso bastardo!”, borbotto Roberts allo spettatore che gli sedeva a fianco. “E’ sempre cos1”.
Ma Rivera non manifestò il suo solito odio. Davanti ai suoi occhi aveva ora una visione di centinaia e centinaia di fucili. Ogni volto del pubblico, fin dove riusciva a spingersi il suo sguardo, fino ai posti più cari, s’era trasformato in un fucile. Poi, vide il lungo confine messicano, arido, inondato di sole, pieno di pena e di dolore, e snocciolate lungo il confine le armate di straccioni che aspettavano una sola cosa: fucili!.
Tornato all’angolo, attese ritto in piedi. I secondi erano sgattaiolati via tra le corde, portando con sé lo sgabello. Di fronte a lui, in diagonale, dall’altra parte del ring, stava Danny. Il gong suonò e la battaglia ebbe inizio. Il pubblico rumoreggio di delizia, perché non aveva mai visto un incontro aprirsi in modo più convincente. I giornali avevano ragione, era un incontro di ripiego, con l’esito scontato.
Nello slanciò per incrociare subito i guantoni, Danny aveva percorso tra quarti della distanza che lo separava da Rivera, con l’intenzione esplicita di spazzar via dal ring il ragazzino. Non lo assalì con un solo colpo, o con due o tre o una decina: fu una girandola di pugni, un vortice scatenato di distruzione. Rivera non era da nessuna parte, era sommerso, sepolto da una gragnola di colpi senza interruzione, portati da ogni angolo e posizione da un maestro nell’arte della boxe. Fu travolto, spinto contro le corde, separato dall’arbitro, risospinto ancora e ancora contro le corde…
Non era un incontro: era un macello, un massacro. Qualunque pubblico che non fosse il pubblico di un incontro di boxe avrebbe esaurito tutte le proprie emozioni durante quel primo round. Danny stava davvero provando di che cosa fosse capace, la sua era un’esibizione splendida, Il pubblico era talmente eccitato e sicuro dell’esito, e partigiano, da non accorgersi che Rivera riusciva sempre a stare in piedi. Il pubblico dimenticò Rivera, lo scorgeva di rado tanto era avviluppato nell’attacco di Danny, feroce e scatenato.
Passò un minuto a quel modo, due minuti. Poi, nell’attimo brevissimo in cui l’arbitro separava i due contendenti, ci fu una chiara visione del messicano: il naso gli sanguinava copiosamente, aveva un labbro spaccato, e quando si volse e barcollò in avanti in un clinch disperato mostrò sulla schiena le rosse striscie di sangue fresco lasciategli dal ripetuto contatto con le corde.
Ma di nuovo al pubblico sfuggi qualcosa: che il suo petto non ansimava e che i suoi occhi ardevano freddi come non mai. Troppi aspiranti campioni, nella frenesia crudele degli allenamenti, avevano praticato su di lui questo genere di selvaggio attacco scatenato perché lui non avesse imparato a passarci attraverso per un compenso che andava dal mezzo dollaro l’incontro ai quindici dollari la settimana: una scuola dura, un apprendistato severo.
Poi, la cosa stupefacente accadde. Quella mischia scatenata e vorticosa d’un tratto cessò. Rivera era solo, in piedi in mezzo al ring, perché Danny, il famoso Danny, era al tappeto. Il suo corpo fremeva mentre riprendeva conoscenza a poco a poco. Non aveva barcollato, non era scivolato, non s’era lasciato andare lentamente. Con l’imprevedibilità di una morte improvvisa, il gancio destro di Rivera l’aveva sollevato a mezz’aria. L’arbitro spinse indietro Rivera con una mano e si chinò sul gladiatore caduto, cominciando a contare. E’ abitudine del pubblico, d’un incontro di boxe applaudire sonoramente un colpo secco e pulito da ko. Ma questa volta il pubblico non appalaudì: la cosa era stata troppo inattesa. Si limito a seguire il conteggio in un silenzio teso, incredulo, e proprio nel mezzo di quel silenzio si levò esultante la voce di Roberts: “Ve l’avevo detto! E’ un fior di pugile!”.
Al quinto secondo, Danny era riuscito a rotolare sul ventre, al settimo s’era messo con un ginocchio a terra, pronto a rialzarsi dopo il nove e prima del dieci. Se al dieci il ginocchio toccava ancora terra, Danny era considerato fuori combattimento, e aveva perso; nell’istante invece in cui il ginocchio si staccava da terra, egli era di nuovo in gioco, e Rivera era nel suo pieno diritto se tentava di mandarlo al tappeto una seconda volta. Rivera non rischiò: avrebbe ancora colpito nel momento in cui il ginocchio si staccava da terra… Il messicano girava intorno a Danny ma anche l’arbitro gli girava intorno per tenersi fra Danny e il suo avversario; e Rivera sapeva che quei secondi venivano contati con lentezza esasperante… Tutti i Gringos, arbitro compreso, gli erano contro.
Al nove, l’arbitro diede una spinta violenta a Rivera, ricacciandolo indietro. Era irregolare, ma permise a Danny di rimettersi in piedi, le labbra di nuovo atteggiate a un sorriso. Mezzo piegato in avanti, le braccia strette intorno alla faccia e all’addome, Danny andò saggiamente in clinch. Stando alle regole, l’arbitro avrebbe dovuto separarli, ma non lo fece; e Danny rimase attaccato a Rivera come un mollusco sbatacchiato dai marosi, ed ebbe tutto il tempo per recuperare le proprie energie. L’ultimo minuto della ripresa stava lentamente passando: se riusciva a restare in piedi fino al gong, poteva contare su un intero minuto di riposo, nel suo angolo, per rimettersi del tutto in forze. E riuscì a farcela, sempre sorridente pur nell’agoscia tremenda dei secondi.
“Non perdi mai il sorriso, eh, Danny?!”, esclamò qualcuno, e il pubblico rise forte, di sollievo.
“L’ho suonato come un tamburo, quel Brillantina laggiù, che ne dite?”, ansimò Danny nel suo angolo, rivolto all’allenatore, mentre i secondi gli lavoravano freneticamente intorno.
Il secondo e il terzo round furono interlocutori, di studio: Danny abile e astuto generale del ring, parava e schivava e portava colpi di sbarramento, facendo di tutto per recuperare dopo quel colpo tremendo subito nel primo round. Era scosso e segnato da quel pugno, ma la sua straordinaria condizione fisica gli permise di conservare intatto il vigore. Tuttavia, cessò quelle sue tattiche d’assalto: il messicano s’era dimostrato un osso tremendamente duro. Danny preferiva ora far pesare le proprie migliori capacità di pugile: era un maestro in fatto di trucchi e abilità ed esperienza, e sebbene non riuscisse a portare a segno colpi decisivi tuttavia procedette a martellare sistematicamente l’avversario, per logorarlo e fiaccarlo. Piazzava tre pugni contro uno solo di Rivera, ma erano colpi destinati solo a punire, non a distruggere. La distruttività stava nel loro accumularsi inesorabile. Danny cominciava a nutrire un certo rispetto per quel cucciolo inesperto che sapeva portare colpi tanto secchi e violenti e rapidi con entrambe le mani. In difesa, Rivera sfoderò uno straordinario diretto sinistro d’incontro: momento dopo momento, attacco dopo attacco, con quel diretto riuscì a tenere a distanza Danny, infliggendogli più d’una ferita al naso e al labbro. Ma Danny era proteiforme, e per questo era la promessa del futuro: era capace di passare da uno stile di combattimento all’altro, da una combinazione all’altra, a piacere. Adesso, per esempio, si gettò nel corpo a corpo, rilevando tutta la propria cattiveria e riscendo così a neutralizzare anche il pericoloso diretto sinistro dell’avversario. Mandò il pubblico in visibilio con quel suo corpo a corpo cui faceva seguire stupende combinazioni in uscita; e ad un certo punto mise a segno un magnifico uppercut dal basso in alto che sollevò a mezz’aria il messicano spedendolo poi al tappeto. Rivera rimase accucciato a terra, appoggiato a un ginocchio mentre cercava d’approfittare al massimo del conteggio; e dentro di sé sapeva benissimo che l’arbitro contava quei secondi con grande velocità.
Di nuovo, durante il settimo round, Danny piazzò quel diabolico uppercut. Riuscì solo a far vacillare Rivera, ma un attimo dopo, mentre la guardia di questi era ancora scoperta per lo stordimento, lo spedì oltre le corde con un altro pugno tremendo. Il corpo di Rivera rovinò sulle teste dei giornalisti, che lo sostennero spingendolo di nuovo sulla pedana, di qua delle corde: qui, Rivera rimase con un ginocchio a terra mentre l’arbitro mitragliava i secondi sulla sua testa. Al di là delle corde che doveva scavalcare per rientrare nel ring, l’attendeva Danny, e l’arbitro non faceva nulla per allontanarlo come prescriveva il regolamento.
Il pubblico era pazzo d’entusiasmo.
“Ammazzalo, Danny, ammazzalo!”, era l’urlo che a poco a poco venne ripreso da decine di voci fino a diventare una sorta di canto di guerra, l’ululato di caccia d’un branco di lupi affamati.
E Danny fece del proprio meglio per non lasciarsi sfuggire la preda. Ma Rivera fu molto abile: cogliendo tutti di sorpresa scattò in piedi all’otto invece che al nove, e si tuffò tra le corde andando subito in clinch. Questa volta, l’arbitro intervenne prontamente, strappandolo subito via in modo che potesse servire da facile bersaglio, offrendo a Danny tutte le occasioni buone che un arbitro scorretto è capace di offrire.
Ma Rivera sopravisse, e a poco a poco il cervello tornò a snebbiarsi. Era di nuovo chiaro: erano tutti odiati Gringos ed erano tutti scorretti. E nel mezzo di quel ficcile momento, le visioni continuarono a lampeggiargli in testa: lunghi silometri di binario rovente nel deserto; rurales e sceriffi americani; prigioni e galere; vagabondi raccolti lungo i serbatoi d’acqua, tutto lo squallido, angosciante snodarsi della sua odissea dopo Rio Blanca e lo sciopero… E poi, gloriosa e risplendente, vide la grande, rossa Rivoluzione spazzare il paese. I fucili erano là, davanti a lui. Ciascuna di quelle facce odiose era un fucile. E lui combatteva per i fucili. Lui era i fucili. Era la Rivoluzione. Combatteva per il Messico.
Il pubblico cominciava ad essere esasperato nei confronti di Rivera. Perché non accettava la lezione che era prevista per uno come lui? Perché era così ostinato, visto che altro esito non poteva esserci? Erano pochi quelli che s’interessavano a lui, ed era quella precisa, ben definita percentuale del pubblico di scommettitori che è solità puntare sul perdente: pur convinti dell’inevitabile vittoria di Danny, avevano puntato sul messicano quattro a dieci e uno a tre. Più d’una puntata era stata fatta sul numero di round che Rivera avrebbe portato a termine e a bordo ring un bel po’ di denaro era stato investito nella scommessa che non ce l’avrebbe fatta a resistere per sette round, forse nemmeno per sei. ED ora che il K.O. sembrava imminente e gli scommettitori si sentivano già col denaro in tasca, s’unirono al coro di incoraggiamento al favorito.
Ma Rivera rifiutava di accettare la lezione. Durante tutto l’ottavo round il suo avversario cercò inutilmente di bissare l’uppercut. E al nono Rivera tornò a stupire il pubblico. Nel mezzo di un clinch, uscì dall’abbraccio con un movimento rapido ed agile, e, nello stretto spazio che separava i loro corpi, il suo destro scattò dal basso. Danny andò al tappeto e si lascio contare fino al nove. La folla era ammutolita: Danny era stato battuto al suo stesso gioco, il famoso uppercut destro gli era stato usato contro! Rivera non fece alcun tentativo di farglisi adosso al nove: era ormai chiaro che l’arbitro ostacolava quella manovra di Rivera, sebbene poi, quando si trattava di Danny ed era Rivera ad aver bisogno di rialzarsi con tranquillità, se ne stesse esplicitamente in disparte.
Per ben due volte durante il decimo round, Rivera andò a segno con l’uppercut destro che scattava dall’altezza della cintola e toccava il mento dell’avversario. Danny cominciò a perdere la calma: il sorriso non lo abbandono mai, ma il campione tornò a far ricorso a quelle tecniche d’arrembaggio di cui aveva fatto uso agli inizi. Eppure, per quanto aggredisse Rivera con un vortice di colpi, non riusciva a fargli alcun danno. Rivera, invece, attraverso quelle girandola d’attacchi furiosi, trovò le aperture giuste per mandarlo al tappeto altre tre volte di seguito.
Ora, Danny non riusciva più a recuperare nel solito modo, e all’undicesimo round era in condizioni parecchio precarie. Ma, da quel momento fino al quattordicesimo round, offrì al pubblico lo spettacolo più entusiasmante della sua carriera. Parò e bloccò, combattè centellinando gli sforzi, lottò per raccogliere le energie, usò tutti i trucchi più scorretti e cattivi di cui sia capace un buon pugile, colpi l’avversario di testa durante i clinch fingendo d’averlo fatto per sbaglio, gli serrò il pugno tra braccio e fianco, gli premette il guantone sulla bocca per mozzargli il fiato…
Spesso, nei clinch, sibilò tra le labbra spaccate ma sorridenti volgari insulti all’indirizzo dell’altro. E tutti, dall’arbitro al pubblico intero, erano dalla sua parte, lo sostenevano in ogni modo. Sapevano bene quel che aveva in mente: ormai messo in riga da questa sorpresa scaturita dal nulla, stava puntando tutto su un unico pugno. E così si scopriva, si offriva all’avversario, lo invitava e attirava a sé, fintando e cercando sempre l’apertura che gli avrebbe permesso di piazzare quel colpo micidiale caricandolo di tutta la forza di cui era capace, e rovesciando così le sorti dell’incontro. Poteva farlo, come l’avevano fatto altri pugili più grandi di lui: un destro sinistro al plesso solare e alla mascella… Poteva farlo, perché era famoso per la sua forza del pugno che si conservava intatta nel suo braccio almeno finchè riusciva a tenersi saldo in piedi.
Negli intervalli, i secondi di Rivera facevano ben poco per assisterlo. Sventolavano gli asciugamani, ma era scarsa l’aria che gli spedivano dentro i polmoni anelati. “ragno Hagerty gli sussurrava qualche consiglio, ma Rivera sapeva che si trattava di consigli sbagliati. Gli erano tutti contro, era circondato da traditori.
Nel corso del quattordicesimo round, mise ancora al tappeto Danny e subito, le braccia penzoloni lungo i fianchi, si fece da parte per riprendere fiato, mentre l’arbitro iniziava il conteggio. S’era accorto d’un confabulare sospetto nell’angolo di Danny; ed ora vide Kelly alzarsi e avvicinarsi a Roberts, parlargli sopra la spalla. L’udito di Rivera era come quello d’un gatto selvatico, abituato ai rumori e ai silenzi del deserto, e così il messicano riuscì a cogliere alcune frasi di ciò che i due si dissero. Cercò di sapere di più e allora, quando l’avversario fu in piedi, manovrò in modo di attirarlo in clinch nei pressi delle corde.
“…per forza!”, udì dire Michael mentre Roberts annuiva. “Danny deve vincere per forza… Se non ci perdo una fortuna!… Non hai idea di quanto ho puntato!… Denaro mio, poi… Se dura fino alla fine del quindicesimo sono rovinato… Il ragazzo a te darà ascolto… Fa in modo di dirgli qualcosa, O.K.?…”.
Da quel momento, Rivera non ebbe più visioni. Stavano cercando di fregarlo. Per l’ennesima volta mise al tappeto Danny e rimase immobile in disparte, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Vide Roberts che si alzava.
“L’hai sistemato”, gli grido. “Vai al tuo angolo!”. Parlò con autorità, come spesso gli era capitato di fare con Rivera, nel corso degli allenamenti. Ma Rivera gli lanciò una occhiata piena di odio e cattiveria, e attese che Danny si rialzasse. Poi, quando fu di nuovo nell’angolo, durante l’intervallo, Kelly l’organizzatore gli si avvicinò e gli parlò.
“Maledizione! Devi mollare, hai capito?!”, gli abbaiò irato, a mezza voce. “Va giù, una buona volta, Rivera! Dammi retta, e ti prometto che ci penserò io al tuo futuro. La prossima volta ti farò battere Danny, se è questo che vuoi! Ma adesso devi andare giù, e restarci! Hai capito?”.
Con gli occhi, Rivera fece cenno d’aver sentito, ma non aggiunse segno alcuno d’intesa.
“ma perché non parli?”, gli domando con rabbia Kelly.
“E poi perderai comunque”, incalzò “Ragno” Hagerty. “Ci penserà l’arbitro a rubarti l’incontro! Da retta a Kelly, ragazzo, e va giù”.
“Su, da bravo, fa come ti si dice”, aggiunse Kelly in tono implorante. “Ti prometto che t’aiuterò ad arrivare al titolo…”.
Ma Rivera non rispose.
“Telo giuro, ragazzo!”.
Al gong, Rivera percepì che stava preparandosi qualcosa. Il pubblico non ne era cosciente, ma qualunque cosa fosse, era là, dentro al ring, con lui, molto vicina a lui. La sicurezza che Danny aveva mostrato agli inizi sembrò essergli ritornata intatta, e la confidenza con cui gli si fece sotto intimorì il messicano. Stavano per giocargli un brutto tiro. Danny si lanciò in avanti, m Rivera si rifiutò di incontrarlo. Si fece di lato e si mise in salvo. Quel che l’altro voleva era un clinch, evidentemente gli serviva per quel brutto tiro… Rivera arretrò e prese a saltellare intorno, pur sapendo che presto o tordi clinch e brutto tiro sarebbero arrivati. Con la forza della disperazione decise di incoraggiali e fece l’atto di cercare il clinch al successivo affondo di Danny. Poi, all’ultimo momento, proprio quando i loro corpi erano sul punto d’avvinghiarsi l’uno all’altro, Rivera scattò agile indietro. Nel medesimo istante, all’angolo di Danny, urlarono che c’era stata una scorrettezza. Rivera li aveva giocati. L’arbitro ebbe un attimo di esitazione, ma non fece a tempo a pronunciare la decisione che già gli fremeva sulle labbra, perché una voce acuta da ragazzo strillò dalla galleria: “V’ha fregati!”.
Danny insultò apertamente Rivera, cercò d’incalzarlo di nuovo; ma Rivera gli sfuggì danzandogli in torno. Aveva deciso di non piazzare più colpi al corpo. Sapeva di gettare al vento metà delle sue possibilità di vittoria, in questo modo; ma sapeva anche che se mai fosse riuscito a vincere sarebbe stato grazie a qualche allungo, boxando a distanza e non nei corpo a corpo. Ne era certo, gli avrebbero giocato qualche brutto tiro se appena gli si presentava l’occasione. Da parte sua, Danny abbandonò ogni cautela, e per due round s’avventò sul messicano che non osava boxare a distanza ravvicinata. Rivera subì colpi su colpi, a decine, pur di evitare quel clinch maledetto. Il pubblico era in piedi, urlante di gioia, durante quel rush finale di Danny, quel sublime attacco conclusivo. Non capiva cosa stava succedendo, vedeva solo che finalmente il suo bignamino stava conquistando la sua sudata vittoria.
“perché non combatti?”, gridavano rossi d’ira gli spettatori volti a Rivera. “Te la fai sotto, eh? Te la fia sotto!”.
“Allora, bastardo! Ci diamo una mossa?”. “Ammazzalo! Danny! Ammazzalo!”. “E’ tuo, Danny! Ammazzalo!”.
L’unico a conservarsi freddo e controllato era proprio Rivera. Per sangue e temperamento era il più passionale di tutti, ma aveva conosciuto emozioni tanto più violente che quelle onde sonore che s’accavallavano le une alle altre uscendo da diecimila gole vibranti non erano altro per le sue orecchie e il suo cervello che l’aria fresca e vellutata d’un crepuscolo estivo.
Danny continuò nel suo assalto fino al diciassettesimo round inoltrato. Sotto un colpo particolarmente violento, Rivera barcollò e incespicò, e mentre arretrava instabile le braccia gli ricaddero inerti ai fianchi. Danny credette che fosse il momento buono: il ragazzo era suo. E così, fingendo, Rivera lo colse fuori guardia e gli piazzò un destro pulito pulito alla bocca. Danny crollò al tappeto, e quando riuscì a rialzarsi Rivera gli scaricò tra collo e mascella un macigno tremendo. Per tre volte di seguito replicò la combinazione. E nessun arbitro avrebbe potuto dire che erano colpi scorretti.
“Bill! Ti prego, Bill!”, urlo Kelly all’arbitro.
“Non posso!” piagnucolo questi. “Non me lo lascia fare….!”.
Eroicamente, Danny continuava a rimettersi in piedi, ridotto ormai a una maschera di sangue. Kelly ed altri, bordi ring, cominciarono a chiedere a gran voce l’intervento della polizia per far sospendere l’incontro, sebbene l’angolo di Danny rifiutasse di gettare la spugna. Rivera vide che il gasso capitano della polizia si avvicinava pronto a scavalcare le corde. Non sapeva che cosa potesse voler dire. Erono tanti i modi per imbrogliare, in questo sport dei Gringos. In piedi, stremato, sfinito, Danny gli barcollava intorno. L’arbitro e il capitano stavano per cinturare Rivera, quando questi sparò l’ultimo colpo. E stavolta non ci fu bisogno d’interrompere il combattimento, perché Danny non si rialzò.
“Conta!”, urlò rabbioso Rivera, rivolto all’arbitro. E quando il conteggio ebbe termine, i secondi di Danny accorsero a sollevare il loro pugile di peso, trasportandolo inerte all’angolo.
“Chi a vinto?”, domandò Rivera.
A malincuore, l’arbitro gli prese la mano e la levò alta sulla sua testa.
Non ci furono applausi per Rivera. Il messicano se ne tornò all’angolo senz’aiuto, i secondi non gli avevano nemmeno aperto lo sgabello. S’appoggiò alle corde e li fissò con odio e disprezzo; poi, trasferì quell’odio e quel disprezzo sul pubblico, finchè tutti e diecimila i Gringos presenti non ne furono toccati.
Le ginocchia gli tremavano, ansimava per lo sfinimento. Davanti ai suoi occhi, tra nausea e vertigini, le facce odiate ondeggiavano avanti e indietro. Allora ricordò che ogni faccia era un fucile. Ed i fucili adesso erano suoi. La Rivoluzione poteva andare avanti.

Jack London
In Saturday Evening Post 1911